sabato 29 ottobre 2022

Il Cappello d'autunno


Quanto è ricco il mondo quando le sue tinte prendono solo  le sfumature amaranto dell'edera o  delle grosse e massicce foglie delle magnolie che Improvvisamente diventano arancioni assieme ai cachi in maturazione. O di giallo come i più piccoli petali di gelsomino  color dell'oro, dello zafferano fuso,  del miele che cola fruttuoso dai telaini delle arnie che hanno di nuovo le api in piena produzione.
Si raccolgono con lenta fatica , passione e golosa devozione i frutti dolci maturati con sole cocente dell'estate. la vendemmia con i suoi pranzi infiniti e l'acquaticcio per i più piccoli,la raccolta delle olive con le imprecazione del mal di schiena e il verde intenso dell'olio, le pungenti castagne abbastanza fastidiose ma mai come il loro costo nei negozi.


 Quanto è più ricco il mondo quando dopo l'iperattività dell'estate , la frenesia delle giornate infinite, la smania di andare e di iniziare delle vacanze , finalmente si può riposare, rallentare, ponderare , quasi diminuendo anche la rotazione stessa dalla terra, sembra quasi che anche lei si voglia godere ogni foglia che cade, ogni bimbo che esce da scuola correndo incontro alla mamma.

L'autunno è la stagione dei pensieri, dei rendiconti con noi stessi, dei progetti e della protezione. Come l' albero che per tutelare la propria ninfa si chiude, sbarra ogni accesso al freddo, alle intemperie, alle raffiche di vento. Allora decide di spogliarsi, di gettare via ogni velleità ogni sua bellezza o più intima peculiarità. Diventa uno stecco qualunque, un ramo qualsiasi,scarno, brutto ed imitabile.
Protegge ciò che ha di più importante senza preoccuparsi dell'apparire, del dimostrare, dell'essere.

Così anche noi in autunno cominciamo a chiuderci, un riccio che si chiude su se stesso , comincia a riscaldare la proprio tana, la prepara all'inverno con le scorte di affetto e di abbracci.
ci nascondiamo da tutti per goderci queste profumate e illuminanti giornate. In silenzio magari, perchè troppa "caciara" abbiamo dovuto subire nell'estate . Tutta quella esaltazione, quella strana agitazione .
Occorre fermarsi e pensare , chiamare chi ti ama, abbracciare chi non ti conosce, dire addio a chi forse non hai mai conosciuto veramente. Proteggere sempre la propria linfa, quel caldo mondo chiamato famiglia. Fatta di gatti dispettosi e pelosi, di figli raffreddati e di amori senza tempo.
Il primo camino acceso, fermi a guardarlo con un bicchiere di cerasuolo d'abruzzo e un bel piatto di cappellacci di castagne e zucca.


Ecco tutto il video della preparazione 



martedì 13 settembre 2022

Assaggiamo la Calabria!

 


Nella mia grande Calabria , l’aria è diversa è più intensa, è calda , ti racconta già tante storie di territori e odori lontani. In primavera puoi assaggiare al meglio questa meravigliosa terra , quando le giornate si allungano inesorabilmente, il sole che ti riscalda la pelle è irrefrenabile e sei istintivamente spronato a cercare qualcosa che possa saziarti e rinfrescarti. Mi piazzavo sotto gli alberi da frutto per ore, nessuno mi cercava perché sapevano che per tutto l’anno avevo sognato di addentare quei scrigni di nettare dolce. Mi piaceva stare lì in quel prato, in quella grande distesa di terra e coccinelle, ispiravo profondamente e sentivo tutti gli odori della primavera. Sentivo l’odore dell’erba appena tagliata e della terra ancora umida e dei cespugli di origano. Con attenzione e silenzio potevo ascoltare il suono dei frutteti che tentavano di fiorire nonostante ancora arrivassero dalla Sila delle folate di vento freddo di soppiatto. Avvertivo il profumo della legna che ardeva nei bracieri che riunivano vecchi e nuovi amici per condividere momenti di divertimento. Avevo voglia di assaggiare le primizie dell’estate ma era ancora presto, dovevo far tacere quel desiderio. Potevo accontentare il mio palato con qualche frutto di primavera che mi potesse cullare nell'attesa dei sapori più caldi.

Ma quando finalmente scoppiava quell'apoteosi di luce, di colori invitanti e succulenti, di operanti api in festa, tutta la mia aspettativa veniva ripagata. C’erano ceste, ai miei occhi, enormi ceste, ricoperte da grandi foglie scabre, oblunghe, di un verde intenso nella parte superiore, rugose e spesse. Scostavo la prima foglia per trovare la risposta a tutte le mie voglie più intense. Come dono abbondante di Dioniso e Cerere, anche senza usare gli occhi potevo capire cosa avrei assaporato poco dopo. Allungavo una mano, con calma reverenziale, quasi intimorita di fronte a tanta generosità e sentivo una tesa, liscia e soffice buccia, una confezione verde perfettamente chiusa a goccia su di un cuore violaceo, morbido e polposo,  con un piccolo rivolo viscoso di miele fuoriuscire dal frutto.  Un frutto così perfetto e delicato da poter essere distrutto con la piccola pressione di una mano vorace. Il fico, apice ineguagliabile dell’ambrosia divina. Gusto perfetto, umami fatto frutto, appagamento totale di tutti i sensi.

Anche in Calabria le merende erano frugali ma non tanto parche. Con pochi ingredienti avevi all’attivo quelle centinaia di calorie che potevano bastarti per la maratona alle olimpiadi Greche.  Come prima adepta nel culto del Fico, sarei potuta vivere di pane, fichi e prosciutto. Non mi bastava mai, ne ero avida e golosa. La fresca dolcezza leggermente acidula del fico si sposava perfettamente con la stagionatura sapida e fibrosa del prosciutto. La mollica del pane assorbiva tutti i succhi e i tanti piccoli acheni del cuore del frutto ti solleticavano la lingua. La polpa carnosa e succulenta ti riempiva la bocca e il pane faceva solo da cofanetto a cotanta bontà.

Non puoi parlare della maggior rappresentante della Magna Grecia senza chiamare in causa un bellissimo mondo dalle mille sfaccettature e dai molteplici aromi e sapori, l’universo del fritto. Ebbene si a merenda ma non solo. A Natale ma non solo.Non fate gli schizzinosi, lo so che al giorno d’oggi non sono politicamente e nutrizionalmente corretta. Ma se parli di calorie in Calabria ti potrebbero chiedere se senti caldo, diciamo che per una dieta sana e corretta devi avere  le salsicce secche immerse nelle’olio e non puoi fare un ciambellone soffice e morbido se non usi lo strutto. Quindi può anche succedere che nel mese più caldo dell’estate , con quei 40’ all'ombra di un ciliegio e ancora in piena digestione post prandiale tu decida di affrontare una passeggiata della disperazione, forse in preda a qualche allucinazione per i troppi peperoni ripieni del pranzo. Sei tu, il caldo che surriscalda anche i mitocondri assonnati, e l’inconsapevolezza della tua meta. Giravo , vagavo con le mie cugine, passavo a salutare lo zio che aveva sempre le caramelle “friccicherelle” e qualche strana cingomma dall'impronunciabile nome e poi quando ormai avevi esaurito l’ultima scorta idrica del tuo corpo e anche la saliva non riusciva più a bagnare le labbra arrivavi a casa della sempre dolce e sorridente Commare. Davanti alla porta di casa vicino alla fonte c’era una panca in granito nascosta al sole. Ti veniva a salutare il cane, due gatti, 7 galline, 13 nipotini e alla fine la figlia di Marietta ti invitava ad entrare per una gazzosa fresca. DIO salvi Commare Marietta.

All’incirca erano le 15, ti aspettavi un dolcetto, al massimo un gelatino dell’unico negozio del paese, ma sarebbe stato troppo semplice e scontato. Eri la figlia di Albiuzzo, la nordica delle marche che non vedeva mai, poteva offrirti un tristissimo gelato comprato in fretta e furia ? Non sia mai, “Pare Brigogna”.

Allora Cominciavi a sentire un odore sospetto, Marietta improvvisamente spariva, si dissolveva, come la fatina cicciottella della bella addormentata nel bosco, pareva avesse qualche magica bacchetta che poteva trasformare qualunque oggetto, anche noi stesse, in delle prelibate e succulente leccornie. E così in un attimo la vedevi sull'uscio della cucina entrare nel buio della stanza tipo apparizione divina, potevi distinguere solo i contorni tanta era la luce dell’esterno,ma nettamente capivi che ti stava portando dei doni. Oro, incenso e Mirra, potevano essere le metafisiche e auliche metafore di tutto quella bontà. Se ognuno di noi potesse avere sempre a disposizione come kit di sopravvivenza, un vassoio di così tante invidiabili bontà tali da creare dipendenza e assuefazione potremmo affrontare ogni male, ogni nefandezza e crudeltà terrena. Li portava per alleviare i tuoi dolori e le tue pene, ma tu al solo pensiero di avvicinare qualcosa alla bocca che non fosse un ghiacciolo alla menta, una limonata fredda o il cuore pulsante di un ardente cocomero, cominciavi a rimpiangere le 20 versioni di greco che dovevi fare per le vacanze. Ma nulla poteva fermare quella Donna, lei aveva dei poteri di persuasione ipnotici, ti guardava con le ciglia lunghe e gli occhi felici e tu cominciavi automaticamente a masticare tipo robot radiocomandato. Ti venivano infilati in bocca senza che tu te ne accorgessi   bombe ad orologeria  dal  peso specifico del piombo  , l’esplosione di sapore che avveniva in bocca era inversamente proporzionale allo spazio rimanente nel tuo stomaco dopo una settimana ostaggio delle zie. Era oggettivamente una goduria, una guantiera di fritti caldi caldi , croccanti, asciutti, soffici e fragranti ti riempivano la gola e lo stomaco già stava esultando ancora prima che tu finissi di masticare. Ma chi se ne frega del caldo, di cibi sani freschi e leggeri per non appesantire il nostro organismo. Il mio metabolismo stava ballando la rumba e il cervello era andato in ferie per affidarsi solo al piacere infinito che le piccole papille gustative gli stava inviando in  loop.

I Cuddrurieddi

 1 kg di patate

1 kg di farina 0

280g acqua tiepida

25g lievito di birra

10 g sale

olio di semi di girasole per la frittura.


Ho provato questa storica ricetta con un assistente molto speciale che ha reso tutto più gustoso.



Per preparare i cuddrurieddri come prima cosa ponete le patate a bollire  Dopo 30-40 minuti saranno cotte; scolatele e ancora calde schiacciatele con lo schiaccia patate , raccogliendo la purea in una ciotola.

Versate l'acqua tiepida in una ciotola, unite il sale e mescolate. Aggiungete il lievito sbriciolato e mescolate ancora Versate questo liquido all'interno delle patate  e mescolate con un cucchiaio fino ad ottenere una  sorta di crema non troppo liscia.  Aggiungete tutta la farina in un colpo e iniziate ad impastare con le mani ,  

trasferite poi il composto su un piano e lavorate ancora fino ad ottenere un composto omogeneo  Utilizzando un tarocco o un coltello ricavate dei pezzi da circa 140 g  e aiutandovi con le mani formate delle palline 

Man mano ponetele su un vassoio dove avrete posizionato un canovaccio, distanziandole tra loro . Coprite con un altro canovaccio e lasciate lievitare per circa 30 minuti 

A questo punto versate l'olio di semi in un tegame e scaldatelo fino a raggiungere la temperatura di 170°. A questo punto sollevate la prima pallina e infilando le dita al centro, create il foro allargandole leggermente. Se dovessero appiccicare troppo potete inumidirvi le mani. Immergete la prima ciambella nell'olio caldo e muovetela aiutandovi con un mestolo. Inserendo la parte posteriore del mestolo all'interno del buco della ciambella, riuscirete ad allargarla ulteriormente.

Cuocete per circa 2-3 minuti girando la ciambella di tanto in tanto fino a che non sarà ben dorata. Scolatela dall'olio e trasferite su un vassoio foderato con carta da cucina . Procedete in questo modo fino a cuocere tutti i cuddrurieddri e serviteli ancora caldi 

Possono essere mangiati sia dolci con lo zucchero che salati farciti con salumi e formaggi


Buon Appetito e Buona Calabria!

mercoledì 30 marzo 2022

i Sapori dei ricordi




Un odore, un profumo e i vapori che aleggiavano fino ad arrivare nella mia stanza.

Erano gli aromi di una famiglia, anzi di tante famiglie . Sono cresciuta con folate di sugo che arrivavano anche ai viandanti che per caso passavano di fronte a casa mia. Non potevi non notarli, era impossibile. Ti penetravano le narici e arrivavano su su dritti fino ai recettori più assopiti della mente. Ti rimanevano addosso,  anche i vestiti che indossavi diventavano ricettari ambulanti del tuo pranzo. La spesa per i grandi pranzi iniziava giorni prima, nulla veniva lasciato al caso. Nessun ingrediente poteva essere aggiunto senza prima essere stato provato o assaggiato, si rischiava che il lavoro di tante ore venisse rovinato da un sapore sbagliato.

Sono cresciuta così, senza volerlo più diventavo adulta e più accostavo il ricordo di un’emozione alle pentole che borbottavano in cucina. L’immagine di mamma che il giorno della festa iniziava la mattina presto quasi all’alba a cuocere, sobbollire, saltare, tritare, rosolare e spignattare è una di quelle scene che se chiudo gli occhi un solo istante sono così nitide da sembrare il prologo di un film francese …ovviamente noir. Perché non era festa se non accadeva qualcosa che facesse tremare la terra sotto i piedi. Il gatto che fregava di soppiatto il coscio della gallina per il brodo, il forno che improvvisamente smetteva di funzionare, la crema che si stracciava all’ultimo momento, o la tanto temuta telefonata della zia spoletina che teneva occupati per ore dimenticandoci del roast beff sul fuoco.

La tensione di mamma arrivava ai picchi più alti al momento del primo boccone una volta seduti a tavola. Arrivava con il pentolone fumante , sembrava un treno merci colmo di odori, di essenze e tradizioni. Distribuiva i piatti a tutti i commensali, l’ultimo era sempre quello di papà , perché era il più condito, il più sugoso, quello che trasudava olio e spezie. Una volta agguantata la forchetta in un religioso silenzio quasi reverenziale , mamma aspettava il verdetto, e tanto qualsiasi cosa tu potessi dire il più velocemente possibile perché volevi spazzare via tutta quella bontà che avevi di fronte , mamma già sentenziava che non era come doveva essere. Ma il momento più bello era quando papà con la crosta fragrante e croccante del pane raccoglieva con un’ attenzione e precisione chirurgica il sugo attaccato alla pentola e con il gesto d’amore più sincero che un padre possa fare lo negava a se stesso per darlo a noi golose e fameliche figlie.


Non so perché ma la maggior parte dei ricordi di casa mia sono seduti attorno ad un tavolo. Per noi non era l’occasione di un’abbuffata ma era il rituale più bello per stare insieme. La scelta del menù richiedeva una notevole attenzione, occorreva pensare agli invitati, a cosa avrebbero voluto mangiare, mamma consultava il suo libro delle cene in cui annotava cosa aveva già preparato per loro nei convivi precedenti. D’estate si cenava in giardino, un grande e lungo tavolo imperiale con tutti gli amici vicini. Tante candele e il rumore del fiume  come colonna sonora. Mamma pensava ai piatti forti, alle pappardelle con il cinghiale, al filetto bardato in crosta di pane, e lasciava alla prole fantasiosa la scelta e la preparazione degli antipasti. Papà controllava che tutto fosse in ordine, che la tavola apparecchiata fosse splendente, con i bicchieri più belli, le posate appena argentate e i posti assegnati nel modo corretto. A tutti i pranzi io e le mie sorelle dovevamo essere obbligatoriamente sedute accanto a lui. C’erano ospiti importanti, amici di vecchia data, ma noi dovevamo essere vicino a mamma e papà. Come scudi viventi alle infamie e alle malvagità del mondo.

Ogni piccolo grande giorno della mia vita ha un sapore. Posso ricordarmi esattamente cosa ho mangiato al mio undicesimo compleanno, e qual’era il sapore del dolce quando la domenica andavo a trovare i miei nonni. Le passeggiate in montagna mi assicuravano i pranzi più sinceri, l’insalata tagliata e condita sopra ad una roccia, la soppressata condivisa con gli altri, il pane con il pomodoro sopra e l’olio di Trevi dell’ultima spremitura.

Vorrei farvi sentire il gusto delle mie feste, vorrei farvi ascoltare il suono della lingua che preme sul palato un semplice chicco d’uva. Vorrei rivivere i giorni della mia famiglia e di una casa che forse non esisterà più.

N.B.

Ne parlo al passato, solo perchè il  suono del portone che si chiude di quella casa non esiste più.

Ne parlo come se fosse un'altra vita, come se fosse un'altra tavola apparecchiata.



sabato 5 marzo 2022

La Merenda di Chicca

 


Chicca ero,anzi, sono io! Mio cugino Giorgio, di qualche anno più grande, non riusciva a dire bene il mio lungo e gutturale nome e quindi da Caterina arrivò a  Chicchi e da lì tutti cominciarono a chiamarmi Chicca. I ricordi più vivi della mia infanzia sono legati alla casa di Spoleto e alla campagna Calabrese. E ogni ricordo ha un suo sapore eccellente. Arrivare a Spoleto era sempre un grande trauma, la domenica mattina cominciavo a piangere per l'ansia di dover affrontare le curve della Valnerina. Venivo impacchetata, con asciugamani, buste di plastica, grembiuli, bavaglini, pozioni magiche e mantra anti nausea. Ma arrivati alle curve di Piedipaterno non c'era rimedio che mi potesse salvare dall'inevitabile inondamento intergalattico. Allora chiudevo gli occhi, papà apriva i finestrini e metteva su un'audio cassetta che mi facesse distrarre. Mi ricordo il periodo di Luca Barbarossa, canzoni struggenti che cantavo con l'ingenuità di una bambina innamorata della vita. Arrivati a casa dei Nonni tiravo un sospiro di sollievo, le mie sorelle mi lanciavano dalla macchina per aver innescato una reazione a catena devastante e salivo i gradini della storica casa di via delle Terme più bella del mondo.   Una grande casa con porte nascoste e librerie a scomparsa, aveva qualcosa di magico quel posto, forse l’odore di pipa di Nonno Vittorio che arrivava fino al ballatoio del secondo piano con tutta la luce che entrava dalle grandi finestre sembrava di stare in un pian grande pieno di nebbia e io mi divertivo ad immaginare fra uno scalino e l’altro delle lingue di fuoco che cercavano di prendermi, dovevo passare da una poltrona al divano senza mettere piede a terra perché gli occhi di bambina  vedevano dei piccoli folletti dispettosi che volevano pizzicarmi le gambe. Mi ricordo la strana e piacevole sensazione del velluto dei divani blu sotto le unghie. 



Una grande scala a chiocciola in ferro battuto ti portava direttamente dal piano superiore al grande giardino pieno di querce e noci e gelsomini. Nonna mi faceva sedere su una grande sedia in vimini a cucchiaio in cui una volta salita non riuscivo più a scendere e lì mi dava LA MERENDA.

Nonna Nanda mi viziava con piccoli ma graditissimi bocconi d’amore. La sua merenda era atipica, ma la mia famiglia non è mai stata troppo incline alle formalità. Si presentava con una bella fetta di pane di Strettura rigorosamente senza sale e cotto a legna, bagnata con vino rosso, acqua e zucchero e voi non potete immaginare quale gioia mi potesse dare  quella piccola trasgressione. La mangiavo come se fosse una cosa proibita, come se mi facesse diventare grande allo stesso modo dei biscotti di Alice nel paese delle meraviglie e forse dopo la merenda qualche bianconiglio correre nel giardino lo vedevo anche io!

 Non erano semplici spuntini o qualcosa per azzittire lo stomaco borbottante.  Per fortuna in tutta la mia infanzia e forse anche un po’ dopo mi sono fatta cullare e viziare dai sapori veri del conforto. L’odore di mamma non è mai stato griffato da alcuna famosa fragranza, ma aveva il profumo del biberon, del latte caldo con i biscotti e della vestaglia morbida con il bordino viola con cui mi svegliava la mattina. Ancora oggi sento quell’odore quando mi sento bene.  Delle volte papà nei pomeriggi di autunno, quando fa notte così presto che ti ritrovi dal grembiule slacciato dell’uscita di scuola  direttamente al pigiama ante-cena, mi portava con lui e la sua piccola e potente 500Fiat blu fiammante a fare le visite ai suoi pazienti nelle frazioni più remote del nostro comune. Piccolissimi Borghi arroccati, aggrappati o adagiati sulle creste dei monti umbri-marchigiani. La macchinina blu sembrava arrampicarsi su quelle stradine impervie e anche con un metro di neve il nostro scarabeo andava scaltro come uno scoiattolo che si arrampica sull’albero. Quando arrivavamo venivamo accolti quasi sempre dalle donne del paese con gonna, zinale e fazzoletto in testa. I più anziani erano davanti al fuoco e l’unico suono che sentivi in quei magici posti era il muggito delle vacche e  il dondolare dei campanacci al loro collo. Papà visitava le famiglie al completo dai bambini ai più canuti e mentre io aspettavo giocando con qualche ragazzina della mia età o rincorrendo qualche gatto, si stava già compiendo la magia. Le signore per ringraziare il Dottore preparavamo un cestino di purezza delle nostre terre. Una bella bottiglia di latte di mucca appena munto ancora caldo e una fustella grondante siero di ricotta di pecora, infine le uova delle galline più libere e reazionarie del mondo . Quella era una festa, mi faceva sentire l’odore delle cose  genuine, nessuna confezione comoda, colorata , di design, con le ultime ricerche pubblicitarie e di marketing. Una mera bottiglia di plastica, una fustella bianca e la carta di giornale a tenere le uova ferme.

L’uovo. Cosa c’è di più semplice e unico di un uovo?Atomo indispensabile e primitivo della nascita del cibo. Prima particella malleabile e duttile, generatrice di consistenze e forme diverse. Origine del bene, creatrice di creme, flan e tagliatelle.  Spesso mamma mi preparava l’uovo sbattuto. Un tuorlo, due cucchiai di zucchero e una forchetta. Sentivo il rumore della forchetta che sbatteva l’uovo mentre stavo facendo i compiti davanti al camino. Lo sbatteva con un vigore tale da farlo diventare una crema morbida e soffice, alla fine aggiungeva o un cucchiaino di caffè o di cacao. La colazione più gustosa che possa esistere, sentivi i granelli di zucchero rompersi sotto i denti, ti si sporcavano le labbra di cacao e con il cucchiaio cercavi di pulire perfettamente la tazza, sembrava passata sotto l’acqua per la cura con cui avevi ripulito tutto. Era buono, era una botta di vita e di dolcezza. L’alternativa all’uovo era sicuramente la ricotta. Papà bruscava una fetta di pane e sopra ci metteva una bella cucchiaiata di ricotta soffice e saporita e a finire il tutto ci spalmava la marmellata di prugne o di more che mamma aveva preparato a fine estate. Ancora oggi che sono grande ormai quasi vecchia vorrei che qualcuno nelle giornate più grigie e piovose , mi preparasse quell’attimo di calore.

giovedì 10 febbraio 2022

Una presa di sale


 E’ veramente strano quanto sia importante per me il cibo. Quanto ritenga fondamentale avere la tavola imbandita del giusto pasto. Ogni giorno, ogni festività ogni ricorrenza deve avere il suo rituale culinario. Quale piatto debba esserci la domenica, quale calore debba scaldare il mio corpo nelle giornate fredde e umide. Quale sfizio possa rincuorarmi negli attimi di sconforto. Il piacere della sua preparazione di tutti i passaggi fatti nelle corrette tempistiche con gli stessi movimenti e i medesimi ingredienti. Il gusto sta nel poter creare la meraviglia. L’attesa della cottura lenta, silenziosa e invitante.

 Un Piatto da portata di porcellana fina con i bordi blu di prussia e oro  e tutta la famiglia seduta in attesa della venuta dell’arrosto più succulento. Tu tedofora di luce aromatica e fumante , portatrice di salse burrose e acidule. Il cibo non può solo saziare, ti deve raccontare la sua storia, la sua evoluzione, il suo essere felicemente anacronistico.  I sapori di ogni regione. Le alici fritte ripiene di ricotta e maggiorana dalla liguria, Ossobuchi con gremolata dalla lombardia, Porcini impanati e fritti dal piemonte,canederli trentini, cappelletti emiliani, peposo Toscano..




Ho avuto la fortuna di avere due genitori, golosi e curiosi, che mi hanno fatto assaggiare tutto, conoscere coltivazioni, pascoli e tradizioni regionali.

Piano piano ho capito cosa mi appassionava. Studiavo diritto civile e sognano il manzo alla bourguignonne. Frequentavo le lezioni di economia e elencavo strumenti e ingredienti per un eccellente clafoutis alle ciliegie. Il primo libro nelle mie mani fu il manuale di cucina di Gualtiero Marchesi. Una befana me lo lasciò davanti al camino. Di nascosto dai miei fingevo di studiare ma in realtà ero immersa nella salsa olandese, risotto alla milanese e brasato di vitellone con morellino di scansano. Mi appuntavo i suggerimenti a piè pagina e speravo un giorno di poter provare tute quelle meravigliose ricette. Per me Lo chef Marchesi era un guardiano delle tradizioni,un amante delle sfide, un genio che rappresentava solo fra tanti l’eleganza, la saggezza e la storia della cucina.

Mi insegnò la voglia di abbinare sapori, consistenze e colori e l'importanza di un goccio di olio in più e una presa di sale in meno.



domenica 30 gennaio 2022

Musica e Cibo

 


Un Giorno mi chiesero quale fosse il legame fra la musica e il cibo e come una melodia potesse influenzare un piatto.

Mi affidarono tre composizioni musicali a cui abbinare delle preparazioni culinarie e mentre mi scervellavo per seguire ritmo e armonie, ho realizzato quanto fosse intrinseco il rapporto fra le due arti.

 Perchè sempre di arte si parla.

Quando cucini le tue mani sono artefici di benessere. Il tuo palato censore di bontà, la tua immaginazione ingegnere di contrasti e consistenze. Chiudi gli occhi e desideri quella sensazione di perfezione. Tutto bilanciato al godimento. Tu crei, tu decidi se far provare piacere. Tu hai la possibilità di eccitare l’animo, di stuzzicare gli occhi, di stimolare la lingua. Tu puoi coccolare con bocconi di infanzia chi ormai ne ha perso memoria, puoi crescere nuovi golosi e farli diventare tuoi adepti.

Tu Cuoco hai il potere. Di Muovere le mani con così tanta fermezza e decisione, di tritare in modo così pulito e rapido, di avere il controllo e l’adrenalina della creazione.

Sei solo tu e i tuoi fuochi , l’amore per quel coltello , la tua bianca e limpida divisa. Ordine e rigore. Chi pensa che la cucina sia estro e improvvisazione, si sbaglia. La cucina è studio e ricerca. Dietro ad ogni pietanza esiste un intensa volontà di meravigliare. La fantasia , l’arte e la capacità di un cuoco non è nulla senza anni e anni di studio e tentativi.

Tutto si muove con estrema attenzione, lo Chef dirige un’orchestra di pentole e colini. Impartisce tempi e ritmi del servizio . Il lavoro di ognuno inizia e finisce dove comincia la preparazione di un altr’altra partita. Lo Chef chiama, indica e con precisione osserva tutto fino al momento in cui esce dalla cucina il piatto fumante e perfettamente assemblato per temperature, colori e sapori.

 Ogni cucina ha un suo suono, quella piccola orchestra sin dai primi gesti ha una gamma di vibrazioni e battiti inconfondibili. Pur essendo di spalle al tuo collega sai riconoscere la sua preparazione, quale strumento sta utilizzando e fra quanto finirà il lavoro. Il balletto di chi in servizio deve muoversi velocemente e educatamente nella cucina è impalpabile. Quasi mezze piroette per sfornare i Flan e impattarli senza rovinare nulla. Passi doppi e incrociati per evitare e non toccare chi stà impiattando con piccole e infinite pinze chirurgiche.

Fiato sospeso e attesa incolmabile al ritorno del piatto vuoto. Vera ed unica recensione che può interessare ad un cuoco. La lucentezza di quel plateaux e la soddisfazione del cliente che puoi intravedere dal Pass dello chef al momento in cui la porta basculante gioca a nascondino.

Un rapporto di amore e di odio.

Di mani massacrate , stanche rugose e screpolate. Sostituisci la manicure colorate delle ferie con scottature a  falce di luna . Gocce di olio bollente , al posto di madmoiselle de chanel. Unghie corte e ben limate, un piccolo callo sulla mano destra a testimoniare il tuo rapporto di passione con il tranciante. A fine servizio una ciotola piena di ghiaccio per dare ristoro al gomito sinistro, e un bicchiere di rosso, il più intenso quello che ti fa dimenticare chi ti chiede la cocacola con il tartufo nero di norcia o un filetto di Vitellone stracotto.

La rabbia di un cuoco è il suo unico modo per esternare la sua stanchezza. Per chi non capisce quella sua mania per l’erba cipollina e che il piatto non aspetti più di 5 sec prima di essere portato al cliente. Perché tu per avere quel risultato hai rifatto quei plin 2 volte , perché non sei andato a trovare i tuoi genitori per finire le preparazioni in tempo, perché il sabato potresti andare a passeggiare lungo il lago e invece stai lì con le mani nervose di perfezione e quando quella tua creazione arriva finalmente al tavolo, il cliente si è alzato a fumare.

La tua rabbia e impotenza di fronte ad un piatto freddo e ormai rovinato è logorante. Nessuno sa quanto amore e rabbia c’è in ogni pietanza scritta su quei menù.

 Cambiare il menù ad ogni stagione , tentare nuovi accostamenti ti entusiasma ancora. Se sei un cuoco, ti emozioni quando assaggi qualcosa di buono, lo trovi un regalo eccezionale, inaspettato.  Eppure c’è così tanta cattiveria nel cibo dei ristoranti al giorno d’oggi, da confonderti e scoraggiarti.

Ci sono dei fari di sapienza e esperienza, Ci sono colonne di storia culinaria e primule di innovazione in giovani Chef speranzosi e purtroppo anche tanti menù turistici con cotoletta e patatine.




Mio marito suonò con dolcezza la danza della fata Confetto e io immaginai i suoi passi colorati attraversare il sentiero di un boschetto frondoso, con piccoli ciottolini e l'impronta saltellante di questa fatina golosa di cioccolato e rosmarino.







martedì 18 gennaio 2022

Cucina è



Cucina è sapere.

                                                            

Solo dopo tutti questi anni di assenza dalle pagine di questo Blog che iniziai con tanta sincera e passionale ingenuità, posso affermare con assoluta certezza che non c'avevo capito una cippa.

La cucina non è preparare un perfetto e araldico piatto, confezionato con tutti i più attenti accorgimenti per poter proporre una foto impeccabile. Scegliendo tovagliato e la migliore luce del mattino .  Quella è pura ed effimera facciata di compiacimento con se stessi.  Della serie  Te la canti e te la soni.

La cucina è avere la sala piena, tre fuochi a disposizione per 9 piatti diversi, un cameriere  su di giri che sbaglia le comande, un proprietario invadente e l'aspettativa più grande di un cliente sbadato che vuole la massima resa con la minima spesa e il minor tempo possibile.

Poi ci si chiede perchè il cuoco impreca, eppure la cosa che ama e detesta di più è proprio la ressa del sabato sera, quando credi di affondare inesorabilmente nella "merda" (termine tecnico per indicare il delirio di un servizio che parte male e continua peggio) eppure ne cacci sempre fuori le zampe e anche l'orgoglio. Perchè il vero cuoco anche si trova nelle situazioni più intrecciate, se è un vero professionista,
non cede mai a scappatoie o palliativi e mai e poi mai smette di prestare attenzione ai suoi piatti. Fino all'ultimo, anche al tavolo che ha ordinato un menù degustazione alle 22: 15 . Non smetterà mai di seguire cotture e preparazioni o buttare nella spazzatura un petto d'anatra cotto male. Il vero Cuoco tiene duro, bestemmia e impiatta.

Ho studiato tanto e mi sono formata. Ho avuto i migliori insegnati e Chef a mio fianco che mi hanno guidata e se c'era bisogno rimproverata. 

Ho appreso più da quelle mortificazioni che da mille libri, ho imparato a non prendermi troppo sul serio e mettere sempre in discussione tutto.

Grazie Cucina, spero presto di poter continuare la nostra conoscenza.